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TAP: gasdotto, un’opera che serve davvero?

In Puglia proseguono le proteste contro l'eradicazione degli ulivi per far posto al TAP - Trans Adriatic Pipeline, i forti i dubbi sull'utilità dell'opera.

TAP: gasdotto, un’opera che serve davvero?

Fonte immagine: TAP

Il gasdotto TAP sta occupando in questi giorni le pagine della cronaca per via delle proteste che si sono accese in Puglia, più precisamente nella Provincia di Lecce, tra le località di Melendugno e San Foca. Gli animi si sono scaldati dopo che il Ministero dell’Ambiente ha autorizzato l’eradicazione di oltre 200 ulivi per far posto all’infrastruttura che porterà in Italia il gas dalla lontana regione del Mar Caspio, attraversando Turchia, Grecia, Albania e Mar Adriatico prima di approdare nel nostro paese.

È però bene valutare la questione da un punto di vista differente rispetto a quello che considera esclusivamente l’impatto ambientale dell’opera: il Trans Adriatic Pipeline serve davvero?

Si parta dal considerare che il costo complessivo dei lavori si aggira intorno ai 4,5 miliardi di euro. Il rischio è che, in caso di inattività o scarso utilizzo della linea, parte delle spese possa ricadere in futuro sulle tasche delle utenze, in bolletta, ripetendo così una situazione già vista con il rigassificatore OLT di Livorno, come sottolinea Luigi De Paoli, docente di economia dell’energia alla Bocconi sulle pagine del sito QualEnergia.

Di per sé l’idea di diversificare le fonti di approvvigionamento del gas non è errata, poiché renderebbe l’Italia meno dipendente dagli umori e dalle strategie potenzialmente imprevedibili di fornitori come la Russia, la Libia e l’Algeria. Va altresì considerato che Paesi come Azerbaigian e Turchia, di importanza fondamentale nella gestione del TAP, non costituiscono solide garanzie dal punto di vista dell’affidabilità di chi li amministra.

Un altro fattore da non trascurare è quello legato alla reale necessità di importare altro gas, considerando che l’Italia ha già una capacità potenziale pari a 140 miliardi di metri cubi l’anno, mentre il consumo non supera il 50% di tale quota. Il gasdotto andrebbe ad aggiungerne altri 10 miliardi. L’obiettivo del governo sembra però essere un altro: trasformare il nostro Paese in una sorta di hub per la distribuzione della materia prima a livello continentale. Anche da questo punto di vista ci sono dubbi sull’effettiva fattibilità del progetto.

Ultimo tassello del puzzle, ma non per questo trascurabile, è la visione in prospettiva correlata a un sempre più massiccio sfruttamento delle fonti rinnovabili: con un ciclo vitale del gasdotto stimato in trent’anni si arriverà a ridosso del 2050, quando solare, fotovoltaico ed eolico dovrebbero (ci si augura) soddisfare gran parte della domanda energetica.

Il rischio è dunque quello di trovarsi ben prima con un’opera mastodontica, ma almeno parzialmente inutilizzata e responsabile di costi ingenti per il mantenimento. Uno scenario ancora più inquietante è quello che vorrebbe gli investimenti destinati al TAP frenare lo sviluppo delle rinnovabili. Insomma, i quesiti e gli spunti di riflessione sull’effettiva necessita di un nuovo gasdotto non mancano, così come gli argomenti a sostegno di chi supporta l’una e l’altra posizione.

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