Soia, la produzione causa deforestazione: che fare?
La produzione di soia è sempre più causa di deforestazione a livello mondiale: ecco cosa fare per ridurne l'impatto ambientale.
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La domanda di soia sui mercati mondiali è sempre più elevata, ma la produzione di questo vegetale non è sempre amica dell’ambiente. Per far spazio ai campi di soia, infatti, si radono al suolo sempre più foreste, anche in habitat preziosi come quello dell’Amazzonia. È quanto riferisce una nuova analisi pubblicata dal Guardian, ma che fare per invertire una tendenza tanto pericolosa per l’ambiente?
Solo una piccola parte della soia prodotta è dedicata al consumo umano. La maggior parte delle coltivazioni è invece destinata all’industria degli allevamenti e della carne, la cui domanda sta raggiungendo livelli record.
Soia, allevamenti e deforestazione
Così come già accennato, la quasi totalità della soia prodotta ogni anno serve per alimentare gli allevamenti di animali, sia destinati alla produzione di carne che di derivati come i latticini. Stando a quanto riferito dal Guardian, il maggiore consumo avviene nell’industria del pollame, seguita dagli allevamenti di suini, di bovini e di altri volatili.
La richiesta di questo vegetale è cresciuta a dismisura negli ultimi anni, date le sue proprietà nutrizionali. La soia accelera infatti la crescita dei polli, agendo anche a livello ormonale, permettendo così di ottenere in tempi più rapidi del normale esemplari da mandare ai macelli. Inoltre si tratta di un alimento relativamente economico, quindi proficuo dal punto di vista industriale.
La domanda sta però determinando gravi danni in termini ambientali, soprattutto sul fronte della deforestazione. In Amazzonia, ad esempio, la soia è la seconda causa dell’abbattimento delle foreste, dopo la produzione di legname. E anche in Asia gli effetti sono analoghi, tanto che la coltivazione di questo alimento ha un impatto ambientale più elevato rispetto all’olio di palma, nonostante la questione non abbia la medesima rilevanza sulla stampa. L’80% delle coltivazioni si trova comunque in Argentina, Brasile e negli Stati Uniti.
Le alternative
Sulle problematiche sollevate dalla coltivazione della soia si stanno già muovendo le principali organizzazioni internazionali, a partire dalla FAO. Come già accennato, la questione non riguarda il consumo umano – una frazione davvero ridotta, inferiore al 10%, di tutta la soia prodotta – bensì l’industria animale.
Negli allevamenti di pollame, ad esempio, la FAO propone di sostituire al vegetale una dieta a base di insetti, ricca di proteine e decisamente più affine all’alimentazione naturale dei polli. Oggi gli insetti potrebbero sostituire dal 25 al 100% di tutta la soia consumata dall’industria della carne di pollo, il tutto anche implementando delle forme di economia circolare in concerto con gli agricoltori dediti alla coltivazione a uso umano. Così ha spiegato Charles Mears, un esperto dell’allevamento di polli, dalle pagine del Guardian:
La soia è il nostro tallone d’Achille. È la migliore e più economica fonte di proteine, quindi è difficile convincere gli allevatori a farne a meno.
Che fare
La questione non è di facile risoluzione e richiede un intervento integrato fra più attori, dai governi fino ai consumatori finali. A livello istituzionale, risultano sempre più necessarie delle leggi che impongano l’uso di mangimi sostenibili per l’allevamento degli animali, imponendo una percentuale massima di soia.
Ancora, il Guardian suggerisce un intervento diretto da parte dei supermercati e della grande distribuzione, prediligendo la vendita di carni prodotte senza il ricorso al vegetale o, in alternativa, l’istituzione di un marchio “Soia sostenibile” per il consumatore.
Greenpeace tuttavia ricorda come queste proposte potrebbero rappresentare un tampone al problema, ma non lo affronterebbero alla base:
L’unico modo con cui i supermercati e le catene di fast food possono raggiungere una fornitura “deforestation-free” è ridurre la quantità di carne che vendono, non sostituire la soia con altri mangimi o partecipare a programmi di certificazione.
Fonte: The Guardian