Shale oil: 14 milioni di barili giorno entro il 2035
Il businesse dello shale oil è in crescita: gli ultimi rapporti sul petrolio non convenzionale parlano di 14mln di barili entro il 2035.
Si chiama “shale oil” ed è l’equivalente petrolifero dello shale gas: è il petrolio non convenzionale che si estrae con tecniche avanzate come il fracking e le trivellazioni orizzontali.
Secondo l’ultimo report di Pwc, intitolato “Shale oil: the next energy revolution”, dare il via libero alle estrazioni di petrolio non convenzionale potrebbe rivoluzionare il mondo dell’energia aggiungendo 14 milioni di barili al giorno di produzione entro il 2035.
Ciò porterebbe a una diminuzione del prezzo del petrolio compresa tra il 25% e il 40%, cioè tra gli 83 e i 100 dollari al barile, prendendo in considerazione i 133 dollari al barile previsti dalla Energy Information Administration americana per il 2035 e senza lo sviluppo del petrolio non convenzionale.
Stati nazionali e companies private si sono già gettate nel grande affare: nell’aprile scorso la Cina ha intavolato il negoziato con le maggiori aziende petrolifere internazionali; a luglio l’Australia ha accolto la norvegese Statoil e le sue trivellazioni (e a gennaio 2013 c’è stato il primo ritrovamento di shale oil nel paese), a settembre il Governo neozelandese ha ufficialmente incoraggiato le esplorazioni di petrolio non convenzionale.
Sempre a settembre 2012, in Argentina, YPF ha firmato un accordo con Chevron per lo sviluppo del giacimento shale di Vaca Muerta. Nello stesso periodo, nel nord dell’Alaska, avvenivano i primi ritrovamenti.
Nell’ottobre dell’anno scorso, infine, gli Stati Uniti hanno iniziato a pensare alle esportazioni di shale oil, il Messico ha promesso investimenti per 242 milioni di dollari nel settore e in Colombia Exxon ha ottenuto i diritti di esplorazione in due blocchi.
La miriade di progetti di sviluppo dello shale oil fanno il paio con quelli dedicati allo shale gas: raschiare il fondo del barile in cerca dell’ultima goccia di idrocarburi, senza preoccuparsi più di tanto dei rischi.
Fare fracking in cerca del gas o del petrolio è la stessa cosa: si mettono a rischio le falde acquifere e si rischia seriamente di scatenare terremoti. Di bassa entità certamente, è dimostrato, di medio-alta potenza forse.
L’industria petrolifera, poi, ha dalla sua la pessima congiuntura economica che la fa sembrare salvatrice della patria: negli ultimi tre anni ha speso 1,5 trilioni (cioè 1.500 miliardi) di dollari a livello globale nella corsa allo shale e, nei soli Stati Uniti, ha occupato 1,7 milioni di lavoratori nel 2012.
Il miraggio delle royalties, che incidono minimamente nel rapporto costi-ricavi dei petrolieri, ha spinto i Governi di mezzo mondo ad aprire le porte alle trivellazioni orizzontali, all’esplosivo e agli agenti chimici che vengono iniettati ad alta pressione per fratturare le rocce e liberare petrolio e gas.
Negli Stati Uniti, poi, si parla già di indipendenza energetica dall’estero e alla Casa Bianca sono tutti affaccendati a elaborare i conseguenti scenari geopolitici.
Sempre negli USA, però, qualche voce fuori da coro c’è: come quella dello Stato della California, che sta cercando di introdurre l’obbligo alla trasparenza per le aziende che fanno fracking. Lo Stato di New York, invece, è da anni preso in un dibattito tra i pro e i contro della fratturazione idraulica.
La domanda, a questo punto, è: nel lungo termine la politica internazionale riterrà più opportuno proteggere l’ambiente o favorire le multinazionali del petrolio e del gas per inseguire il sogno dell’energia economica a ogni costo?