Gli scimpanzé sono dei killer spietati
Un nuovo studio rivela la bellicosità naturale insita negli scimpanzé, pronti a uccisioni continue nel branco anche in assenza di bisogni di sopravvivenza.
Si è soliti pensare al mondo animale come un regno dove la violenza avvenga sempre per necessità: la caccia, la difesa, la protezione del territorio. Eppure un nuovo studio mostra come la crudeltà immotivata non sia una caratteristica esclusiva dell’uomo, ma anche di specie a questo molto vicine: stando a una ricerca pubblicata su Nature, gli scimpanzé sarebbero dei killer temibili e spietati.
Solo qualche anno fa il New Scientist riportava un caso di estrema crudeltà dalle foreste della Tanzania, una vicenda che da vicino ricorda le tante guerre tra bande che si è soliti apprendere dalla cronaca nera. Pimu, uno scimpanzé a capo del suo branco, è rimasto vittima di un’imboscata organizzata da un gruppo di ribelli poco inclini a rimanere sotto la sua guida. Un vero e proprio omicidio, eseguito a suon di calci, pugni, colpi di bastone, massi e morsi. Lo studio pubblicato in questi giorni, condotto dall’Università del Minnesota, ha voluto proprio analizzare questa inclinazione naturale dei primati alla spietatezza.
La ricerca ha analizzato i dati storici disponibili sulla vita degli scimpanzé, per un totale di 426 anni combinati di osservazione – quindi cumulativi tra diverse spedizioni, non progressivi nel tempo – e 18 habitat naturali diversi. Emerge con una certa evidenza come le uccisioni, spesso anche gratuite, siano particolarmente frequenti fra queste scimmie. E, non ultimo, si dimostra come l’atto non derivi dal contatto con l’uomo, ma sia insito nella loro natura. Così spiega l’antropologo Michael L. Wilson:
Le variazioni delle uccisioni non è correlata all’impatto umano. Le ipotesi sulle strategie adattive vedono l’atto come una tattica evoluta, con cui l’assassino tende a incrementare la propria convenienza attraverso un accesso più vasto al territorio, al cibo, alle compagne e ad altri benefici.
Vi sarebbe quindi una bellicosità naturale nei gruppi di scimpanzé, un elemento che non risponderebbe a bisogni primari o immediati – la fame, ad esempio – ma a benefici secondari come aumentate chances di accoppiamento o l’assenza di limiti sociali sul territorio. Per questo, il gruppo di ricerca sta attualmente vagliando le rilevazioni per capire se questa caratteristica possa essere spiegata in senso evolutivo, quindi se esista un collegamento ereditario con l’uomo.
Su 152 uccisioni documentate, il 92% dei responsabili è di sesso maschile e lo stesso è per il 73% delle vittime. Il più delle volte si tratterebbe di attacchi “intercomunità”, ovvero tra una gang di scimpanzé e un gruppo rivale sullo stesso territorio. La tecnica più comunemente ravvisata è l’accerchiamento, con una media di 8 scimpanzé contro una sola potenziale vittima. La violenza si manifesta in piena rottura con le norme sociali implicite del branco e, in quasi la totalità dei casi, serve proprio per sovvertire gli status prestabiliti.
Dagli anni ’60 in poi, si è pensato che la violenza dei primati in questione fosse correlata alla stretta vicinanza con l’uomo: in uno studio al Gombe National Park in Tanzania, ad esempio, l’introduzione di banane in un gruppo di scimpanzé ha incentivato i killer più spietati. Rimosso il frutto, sono scomparse anche le atrocità. I nuovi dati, tuttavia, sconfessano questa ipotesi. Così spiega l’antropologa Joan Silk:
Il comportamento dei primati non-umani, in particolare degli scimpanzé, è spesso distorto dall’ideologia e dall’antropomorfismo, che produce la predisposizione a credere che caratteristiche moralmente desiderabili – come l’empatia e l’altruismo – abbiano delle radici nell’evoluzione, mentre quelle indesiderabili – come la violenza di gruppo o la coercizione sessuale – non lo siano. Questo riflette una forma di ingenuo determinismo biologico.