Le intolleranze alimentari sono un disturbo che colpisce circa il 2-3% degli italiani: per tutte queste persone sedersi a tavola potrebbe non essere proprio un piacere, visto che alcuni alimenti, spesso molto comuni, sono causa di reazioni negative da parte dell’organismo.
I sintomi che possono far sospettare una intolleranza a un cibo, dopo aver escluso più gravi cause di malessere, sono per lo più a carico dell’apparato gastro-intestinale: dolori addominali, gonfiore, senso di pesantezza e stanchezza, diarrea, vomito e a volte anche sangue nelle feci. Tutte queste manifestazioni sono aspecifiche, quindi non strettamente correlate all’assunzione di un cibo, perciò chi ne soffre dovrebbe sempre affidarsi al parere di un medico.
Il primo passo per una diagnosi affidabile è una buona anamnesi del paziente e della famiglia, l’analisi dei sintomi e di come e quando si manifestano. Sarà anche utile una visita completa: la palpazione dell’addome e l’eventuale dolore associato orientano sullo stato di salute dell’intestino. In seguito, si potrà anche decidere di fare uno dei tanti test a disposizione, anche se non tutti trovano ampia condivisione fra i medici.
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Gli sgraditi sintomi intestinali si manifestano dopo aver mangiato alimenti davvero comuni in tavola, a casa e anche nei menu dei bar o dei ristoranti. Ecco un breve elenco:
In linea di massima il primo approccio per orientarsi nell’intricato labirinto delle intolleranze alimentari è far seguire al paziente una dieta a esclusione: speciale regime dietetico che si basa sull’eliminazione, per 2 settimane circa, di un cibo o di un gruppo di alimenti sospetti. La scomparsa, o la marcata riduzione dell’intensità dei sintomi, sarà utile per orientare la diagnosi. Alla sospensione segue la graduale re-introduzione dei cibi. Nell’arco dunque di 4 settimane dovrebbe essere possibile riconoscere con una buona precisione le pietanze che fanno star male, per poterle eliminare definitivamente.
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Per quanti riguarda invece i test veri e propri per la diagnosi delle intolleranze alimentari, è bene fare subito una distinzione tra test convenzionali e altri, invece, che non lo sono. I primi sono i classici test allergologici, ovvero il Prick Test, il Prick by Prick, il RAST, il Prist, il Patch test, il test di Scatenamento: si fanno per lo più per escludere una allergia, che a differenza dell’intolleranza stimola una risposta immunitaria a un cibo. Tutti questi vengono di solito eseguiti in un ambulatorio medico perché si svolgono in contemporanea a prove come spirometria, visita medica e altri esami clinici.
I test non convenzionali sono tutti quelli che non rientrano nel piano di diagnosi offerto dal Servizio Sanitario Nazionale. I più comuni comprendono:
Ai test elettro-diagnostici appartiene anche il Creavutest, piuttosto diffuso in Italia. Durante l’esame l’operatore appoggia un puntale elettromagnetico sull’indice della mano destra del paziente: punto in cui, secondo i principi dell’agopuntura, passa il meridiano intestinale. Nella mano sinistra il paziente tiene un magnete. Un computer invia al puntale sul dito dei segnali elettromagnetici, gli stessi che gli alimenti testati provocherebbero all’interno dell’intestino.
Tutti questi test sono stati pensati per individuare eventuali intolleranze a alimenti o gruppi alimentari: durante il processo si valutano le risposte a più di 100 cibi, ben 196 con il Creavutest. Più specifici sono alcuni esami indicati dal medico dopo una attenta anamnesi e dopo la prescizione di una dieta ad eliminazione. Tra questi ad esempio il Breath-test per l’intolleranza al lattosio.
In ogni caso, per diagnosticare una intolleranza è indispensabile rivolgersi a un medico che sarà in grado di individuare segnali oggettivi e, soprattutto, di escludere cause più gravi di malessere.