L’impatto ambientale della fast fashion, dai rifiuti tessili alle microplastiche
Il mondo della fast fashion, o moda veloce, ci sta mostrando una serie di problemi di carattere ambientale. Ci sono infatti rifiuti tessili che affollano le discariche, ma anche microplastiche che stanno inquinando le falde acquifere. I tempi del "compro bene e conservo per una vita" sono passati, ma le conseguenze di scelte di acquisto a tempo determinato stanno piegando il pianeta.
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Le nostre nonne, donne concrete e lucide, avevano una concezione precisa che riguardava gli acquisti di abbigliamento e accessori. E no, il fascino della fast fashion, o moda veloce, su di loro forse non avrebbe avuto effetto. Il principio del “compro bene affinché mi duri una vita”, tanto caro alle ave, oggi fa infatti a botte con un altro criterio.
Si acquista seguendo i trend delle passerelle che, per definizione, tramontano in una manciata di mesi, dopo si butta e si acquista il nuovo per restare al passo con le riviste di settore. Il circolo vizioso dei tempi moderni rende i nostri guardaroba instabili, con i capi che durano una stagione, per moda e per resistenza, poi svaniscono.
Bé, non proprio svaniscono, a dire il vero: il cumulo di rifiuti tessili che escono dalle nostre case ogni anno segue, al pari di ogni cosa terrena, la legge della fisica secondo cui nulla di crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Ma in cosa si trasformano gli abiti che buttiamo via per fare posto ai nuovi? La risposta breve è in inquinanti ambientali.
Se invece preferiamo la versione più articolata, ci dobbiamo preparare a note stonate, visto che i numeri sono impietosi e i dati preoccupanti. Il discorso infatti non parte dai rifiuti, che tuttavia restano un problema ingombrante, ma dal consumo delle risorse non rinnovabili e dall’inquinamento delle acque, senza contare l’energia bruciata nella produzione.
Cos’è la fast fashion: definizione
Col termine fast fashion si fa riferimento ad un tipo di moda veloce, mordi e fuggi, che risponde ad una definizione precisa e lineare. Si tratta di capi di abbigliamento e accessori che seguono gli ultimi trend delle passerelle, prodotti con materiali economici e in poco tempo, in modo da essere subito disponibili alla vendita in negozio.
Il modello fast fashion implica infatti la rapida progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione dei capi, restando al passo con la moda. Il costo più contenuto, dato dai tessuti, dai coloranti, dalle decorazioni e dalle lavorazioni a basso prezzo, rende i portafogli dei consumatori finali meno aridi, anche se le spese sono più frequenti.
Fast fashion: la storia
Ma facciamo un salto indietro nel passato, tonando agli albori della rivoluzione industriale, che ha dettato le sue regole in ambito di domanda e offerta. Dal 1800 in poi, con l’introduzione di nuove tecnologie, anche gli abiti sono divenuti più facili da realizzare. E insieme alla diffusione delle macchine da cucire, sono nate piccole e grandi sartorie per le esigenze delle classi medie.
Il consumatore di allora, metteva ancora cura però nella scelta dei materiali e nella loro durata ed era pronto a fare investimenti coscienziosi per capi in grado di restare negli armadi o di essere tramandati. Il discorso inizia a cambiare dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso.
Di fatto, era il 31 dicembre del 1989 quando il primo negozio Zara approdava nella Grande Mela, tra la 59esima e Lexington Avenue. Fu allora che il New York Times coniò il termine Fast Fashion, per descrivere la velocità del marchio nel far arrivare gli abiti in negozio. Solo 15 giorni dalla fase di progettazione alla vetrina, quasi magia.
Il 2000, con l’arrivo delle prime boutique online, che ottimizzavano tempi di acquisto e distanze in chilometri, ha reso il mondo della moda veloce ancora più seguito. I prezzi sempre più bassi, dati dalla maggiore competitività del mercato, la scelta più ampia delle piattaforme online, hanno infatti cambiato i connotati del settore.
La fast fashion: un sistema poco sostenibile
In poche parole, con la moda veloce ci si può concedere il lusso di aggiornare il proprio look a cadenze regolari, seguendo le tendenze del momento e senza sborsare una fortuna. Ma a livello di impatto ambientale, il fenomeno della fast fashion ha generato un sistema pernicioso e poco sostenibile.
Lo dicono i dati, impietosi quanto basta per svegliare anche le coscienze più addormentate e, magari, segnare una meditata inversione di tendenza per non peggiorare la situazione. Da un’analisi di Business Insider, risulta che il 10% del totale delle emissioni globali di carbonio siano a carico dell’industria della moda.
Ma il settore fashion è anche colpevole di prosciugare le fonti d’acqua e inquinare le falde, con il lavaggio dei panni che rilascia ogni anno nell’oceano 500.000 tonnellate di microfibre, l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie di plastica. In più va calcolato un impietoso 85% di tutti i prodotti tessili che finisce nelle discariche nello stesso lasso di tempo.
I costi in termini di acqua ed energia
Il mondo della moda non è solo inquinante, ma anche energivoro, nonché uno dei settori più critici a livello di esaurimento delle risorse non rinnovabili. Se parliamo di acqua, le stime numeriche sono a dir poco indigeste. Per una maglietta di cotone ne servirebbero infatti 2600 litri, per arrivare ai 7500 di un paio di jeans.
La produzione e la trasformazione delle fibre plastiche in tessuti è inoltre un processo ad alta intensità energetica che rilascia in ambiente particolati e acidi, come l’acido cloridrico. Ma il problema non è rappresentato solo dai tessili sintetici, quali il poliestere.
Il cotone, se non è ti tipo organico, può essere infatti un tessuto da considerarsi poco sostenibile a livello ambientale, affatto rispettoso di salute ed etica. Il tasto dolente sono i pesticidi che servono per la crescita, non solo inquinanti per il suolo, ma anche causa di avvelenamento per gli agricoltori.
Il problema delle microplastiche
La plastica, anche quando è adoperata in ambito tessile per i cosiddetti tessuti sintetici (tipo nylon, poliestere, acrilico) resta una fonte di inquinamento certa. Di fatti, i derivati del petrolio hanno tutti un minimo comune denominatore. Ci mettono secoli per biodegradarsi e questo ci fa tornare al famoso principio di de Lavoisier ad inizio articolo.
Le microplastiche non solo impiegano dai 100 ai 1000 anni per distruggersi, dopo aver consumato energia ed acqua per la produzione, ma nella loro trasformazione alterano gli equilibri ambientali. Un rapporto del 2017 dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, o IUCN, stima che il 35% di tutte le microplastiche presenti nell’oceano derivino dal lavaggio di tessuti sintetici.
Se poi consideriamo l’industria della pelle, questa richiede enormi quantità di mangime, terra, acqua e combustibili fossili per allevare il bestiame. In più, il processo di lavorazione è considerato tra i più tossici in tutta la filiera della moda a causa delle sostanze chimiche utilizzate per la concia.
Il bouquet di elementi non biodegradabili e contaminanti per terreno e acqua si compone di sali, formaldeide, derivati del catrame, oli minerali, coloranti di tipo chimico. Va anche ricordato che di tutte le acque reflue nel mondo, il 20% proviene dalla tintura dei tessuti ed è altamente tossico, ma spesso le lavorazioni avvengono in paesi del mondo dove trattamento e smaltimento non sono regolamentati.
Il ritorno alla slow fashion è possibile?
Se il mondo va ad una velocità sempre maggiore, il ritorno ad una slow fashion sembra una contraddizione in termini, o quantomeno una chimera. Ma la sempre maggiore sensibilità ai temi di ambiente e sostenibilità dei giorni nostri è parte già della soluzione. Una moda che rispetti persone, animali e pianeta è possibile e sta conquistando adepti.
Il World Resources Institute sostiene che le aziende debbano ricominciare a progettare, testare e investire in modelli di business che riutilizzino i vestiti e massimizzino la loro vita utile. E l’ONU, attraverso l’Alleanza per la moda sostenibile, vuole invece sensibilizzare marchi e persone sull’importanza di ridurre e invertire i danni causati dalla fast fashion.
La moda lenta, per tonare a pratiche meno invasive, è un concetto interessante, introdotto per la prima volta nel 2008 dalla consulente di moda e sostenibilità Kate Fletcher. Si tratta di un sistema che utilizza processi e materiali rispettosi dell’ambiente attraverso una produzione consapevole, che si concentra sulla qualità piuttosto che sulla quantità.
La moda lenta, tra qualità del nuovo e riciclo del vecchio
Le regole della slow fashion non sono ancora scritte, ma non si deve considerare la moda lenta come un semplice ritorno al passato. Dalle nonne recuperiamo la scelta di capi destinati a non consumarsi in tempi brevi, ma stavolta dando la precedenza a quelli realizzati con procedure a basso impatto ambientale.
Ed ancora, la grande distribuzione è spesso la fucina della fast fashion, il che significa optare per qualcosa di locale invece che per le catene low cost che tutti conosciamo. I capi di moda lenta hanno una caratteristica che forse non ci piacerà troppo, sono evergreen e non seguono i trend del momento.
Ma questo non significa indossarli sentendosi fuori luogo, vuole invece dire sfoggiare i classici di ogni guardaroba che, per definizione, non passano di moda. Il pantalone a sigaretta e il tubino nero, per fare due esempi, restano gli alleati senza tempo dei nostri look da giorno e da sera.
Va anche ricordato che il settore del vintage non conosce crisi e acquistare abiti di seconda mano, con quel tono retrò e affascinante, può salvare capra e cavoli. E anzi, ripulire e riutilizzare qualcosa che è ancora in buono stato, è uno dei migliori modi per ridurre i rifiuti tessili ed evitare che gli scarti di vecchi indumenti affollino il pianeta.
E occhio al greenwashing
Non facciamoci invece irretire dal cosiddetto greenwashing, che alcune aziende operano per convincerci della loro sostenibilità ambientale. In campo modaiolo, si verifica spesso con il recupero dei tessuti consumati, una pratica che talvolta nasconde insidie, specie dinanzi a percorsi non troppo trasparenti e finalità taciute.
In rete, per fortuna, circolano documentari e video esplicativi su questo fenomeno. Non è un piacere per gli occhi guardarli, perché la pubblicità martellante dei grandi marchi è fatta per renderci creduloni. Ma immaginiamoci come Neo in Matrix: pillola rossa, occhi puntati sul finto paese delle Meraviglie, pillola blu, crediamo a quello che vogliamo.
Che scegliamo, la compagnia del Bianconiglio e la lente di ingrandimento sulla verità, per quanto cruda e poco edificante possa essere o di svegliarci in camera nostra come se nulla fosse?
Fonti