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Bambini: dipendenza da smartphone e tablet crea ritardi cognitivi?

Un recente studio lancia l'allarme sui problemi cognitivi connessi all'eccessivo utilizzo di dispositivi digitali da parte dei bambini, c'è davvero un pericolo?

Bambini: dipendenza da smartphone e tablet crea ritardi cognitivi?

Fonte immagine: iStock

Il primo limite di un simile dibattito è l’approccio al tema. Tifosismi contrapposti: psicologi e psicoterapeuti apocalittici da una parte, colleghi integrati dall’altra, per dirla recuperando il povero Umberto Eco. Per farla semplice, la schiera di chi vede i bambini distrutti dai dispositivi come smartphone e tablet su cui trascorrono fin dal piccoli molte (troppe?) ore al giorno e quella di chi, invece, ritiene che sia solo il contesto a cambiare e che ogni epoca abbia le sue fonti di (presunta) dipendenza.

La domanda, si sarà capito, è sempre la stessa: i display fanno male o no ai bambini piccoli e ai loro fratelli un po’ più grandi? La tecnologia dà dipendenza o, lo sostiene uno studio appena pubblicato su Jama Pediatrics, contribuisce addirittura a creare dei “ritardi” cognitivi? Secondo l’indagine, che ha messo sotto la lente 2.400 piccoli fra 24 e 60 mesi, l’equazione sarebbe presto fatta: più tempo i bambini trascorrono incollati agli schermi, peggiori sono i risultati nei testi relativi allo sviluppo emotivo e cognitivo.

A quanto pare un bambino su quattro di quelli che iniziano la scuola in Canada, dove è stata svolta la ricerca, non sarebbe preparato. Mostrerebbe ritardi negli ambiti del linguaggio, della comunicazione, del movimento e nella resilienza emotiva. E, dicono i medici, se questi problemi non vengono affrontati rapidamente tenderebbero ad allargarsi col trascorrere degli anni. Una sfida non da poco anche per i sistemi scolastici alle prese con una serie di lacune in qualche maniera “evitabili” ancora prima di iniziare.

Sono approcci senza dubbio rispettabili, oltre che scientificamente fondati, che tuttavia si perdono per strada un sacco di pezzi: le condizioni individuali di ogni bambino, il contesto familiare, il percorso svolto fino al momento di iniziare la scuola. E soprattutto, spesso mancano di un forte nesso causale: viene prima l’eventuale “ritardo” nello sviluppo cognitivo o l’eccessiva esposizione ai dispositivi tecnologici? Siamo sicuri, per esempio, che i ragazzini con alcune difficoltà non tendano a rifugiarsi dietro quegli schermi, andando a corroborare un’equazione non necessariamente provata?

I numeri sul tema si sprecano. Società pediatriche, editorialisti con poca esperienza di tecnologia e molti preconcetti, associazioni, scritto, insegnanti, maestri, psicologi un po’ troppo su di giri. Ciascuno diffonde i suoi numeri sui presunti danni psicofisici di smartphone e tablet. Che evidentemente esistono, come esisterebbero i danni psicofisici di trascorrere 14 ore al giorno su una bicicletta o mangiare 14 ciambelle fritte al cioccolato ogni 24 ore. Attenzione: non è il solito discorso del mezzo neutrale e dell’uso che se ne fa. O almeno, non solo. Piuttosto, è una faccenda di regole e di esempi. Sono quelle la chiave di moltissimi fenomeni contemporanei che toccano la tecnologia solo in minima parte.

La regola, infatti è il principale antidoto alla demonizzazione gratuita e spesso controproducente. Quanti genitori si impegnano a evitare che per esempio il tablet si trasformi da strumento creativo molto potente, con centinaia di applicazioni dedicate ai più piccoli, in baby sitter digitale? Per esempio alcuni recenti dati raccontano che nonostante molti le mamme e i papà siano consapevoli di eventuali rischi, il 30,7% abbia dichiarato di lasciare qualche volta o spesso il cellulare in mano al figlio prima dei 12 mesi di età. Molto bene. E ancora, quanti di loro danno il corretto esempio, eliminando quando possibile questo genere di strumenti dall’ecosistema vissuto dai bambini fin dai primi giorni di vita? Se questo è importante in età prescolare, diventa essenziale con la crescita, quando lo smartphone si trasforma nel principale canale di costruzione dell’identità. Da oggetto diventa intermediario verso la società e le diverse piattaforme attraverso cui questa si manifesta, social e non solo.

La sensazione, insomma, è che affrontare questo tema con i semplicismi delle statistiche o i punti esclamativi degli studi – molto utili per cogliere i contorni, meno per entrare nel dettaglio – sia fondamentalmente un limite. Anatemi, condanne, sentenze che accusano i dispositivi di diaboliche qualità andrebbero lasciati nelle bocche degli esperti che sulla demonizzazione hanno costruito una carriera. Perché non sono posizioni utili. Come in ogni cosa della vita l’età, la cura, l’attenzione, la competenza (sporcatevi le mani!), il buon senso, le applicazioni su cui si passa il tempo (dieci ore di YouTube non equivalgono un programma pensato con attenzione da un gruppo di pedagogisti) e l’esempio fanno la differenza molto più delle infinite chiacchiere sulla quantità di ore da concedere di fronte a uno schermo, i sistemi di spegnimento automatico o i bei tempi andati dei cortili e dei campetti sotto casa.

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