Greenstyle Sostenibilità Energia Fusione nucleare e progetto ITER: intervista a Luigi Muzzi dell’ENEA

Fusione nucleare e progetto ITER: intervista a Luigi Muzzi dell’ENEA

Intervista a Luigi Muzzi, ricercatore dell'ENEA, impegnato nella progettazione e realizzazione di reattori a fusione nucleare come ITER.

Fusione nucleare e progetto ITER: intervista a Luigi Muzzi dell’ENEA

Per i lettori di GreenStyle la fusione nucleare e il progetto ITER non sono una novità. L’obiettivo di quest’ultimo è la generazione di energia, virtualmente illimitata, grazie a reazioni nucleari che non producano scorie, diversamente da quanto avviene con la fissione nucleare.

Per capire meglio il progetto ITER, e i possibili vantaggi della fusione nucleare, abbiamo intervistato Luigi Muzzi, ricercatore dell’ENEA impegnato in prima persona nella progettazione e realizzazione di reattori che sfruttino questa forma di nucleare “pulito”.

Ci può descrivere quali sono i suoi compiti all’interno dell’ENEA e in che modo è coinvolto in quella che comunemente viene definita fusione nucleare e nello specifico nel progetto ITER?

Sono un ricercatore del Laboratorio Superconduttività dell’ENEA, uno dei gruppi di ricerca più attivi in Italia nel campo della superconduttività applicata. Il gruppo ha acquisito un ruolo di primo piano a livello internazionale nel campo dello studio e della progettazione dei magneti superconduttori, che rappresentano una delle tecnologie chiave per il funzionamento dei reattori a fusione nucleare di tipo Tokamak, come ad esempio ITER.

Dopo aver partecipato alle principali attività di ricerca e sviluppo in ambito Europeo sui conduttori speciali di cui i magneti per la fusione sono costituiti, e considerando la missione strategica dell’ENEA, di trasferimento tecnologico all’industria italiana, abbiamo promosso la costituzione di un consorzio (ICAS – Italian Consortium on Applied Superconductivity) con le due industrie TRATOS Cavi S.p.A. e CRIOTEC Impianti SRL Il mio coinvolgimento nel progetto ITER è attualmente legato al fatto che ICAS, del quale sono il Direttore di Produzione, si è aggiudicato le gare internazionali per la fornitura industriale della quota Europea e di parte di quella Coreana dei cavi superconduttori per i magneti di ITER.

Quali sono le caratteristiche principali che rendono ITER un progetto rivoluzionario nel campo del nucleare?

Il progetto ITER (acronimo per International Thermonuclear Experimental Reactor) è innanzitutto un esperimento scientifico, risultato di uno sforzo comune di molte delle grandi potenze mondiali, quali Europa, Giappone, Stati Uniti, Russia, Cina, Corea, India. E questo è a mio parere di per sé un aspetto di enorme interesse, e in qualche modo rivoluzionario. Nello specifico, poi, ITER dovrà dimostrare per la prima volta la fattibilità scientifica e tecnologica della produzione di energia su larga scala (500 MW di potenza, con fattore di guadagno 10) utilizzando la reazione di fusione nucleare. La stessa che alimenta il sole e le stelle, per intendersi, in cui nuclei leggeri (isotopi dell’idrogeno) in determinate condizioni possono fondersi, formando un nucleo più pesante (elio), di massa inferiore alla somma delle masse di partenza. Tale differenza è ciò che si vorrebbe sfruttare dal punto di vista energetico. Al contrario, i reattori commerciali attuali sfruttano la reazione di fissione nucleare, in cui elementi pesanti (uranio, plutonio…) vengono scomposti in elementi più leggeri. Il successo di ITER aprirebbe inevitabilmente scenari rivoluzionari nel campo dell’approvvigionamento energetico, dal momento che la fusione nucleare potrebbe garantire una fonte di larga scala, sicura e praticamente inesauribile.

A quanto ammontano, finora, gli investimenti che l’Europa e il nostro Paese ha fatto per il progetto ITER?

Se si vogliono considerare gli investimenti fatti da più di 50 anni a questa parte in Ricerca e Sviluppo sulla fisica del plasma e la fusione nucleare, i cui risultati sono ovviamente confluiti nella definizione del progetto ITER, è molto difficile rispondere. Però possiamo ragionare su alcuni dati attuali. Il costo di costruzione di ITER è di 13 miliardi di Euro, distribuiti su 10 anni. Per molti dei partner coinvolti questa cifra apparentemente impressionante ammonta a meno dell’1% degli investimenti totali in Ricerca e Sviluppo. Se poi si considera che il sussidio annuale all’industria dei combustibili fossili a livello mondiale stimato dall’IEA (International Energy Agency) per il 2010 ammontava a 400 Miliardi di Dollari, si capisce quanto il problema del costo di ITER in sé non sia in discussione. Certo, l’Europa, come partner che ospita il progetto stesso, sta coprendo e dovrà coprire una porzione notevole di questo investimento, pari a circa il 45% del totale.

Nell’ambito del 7° Programma Quadro, nel periodo 2007-2013 l’Unione Europea ha dedicato una media annua di circa 760 Milioni di Euro per il finanziamento di EURATOM (European Atomic Energy Community), che gestisce i programmi di ricerca indirizzati al nucleare. Di questi, quasi l’80% dei fondi è stato indirizzato ai programmi di sviluppo della fusione nucleare, incluso il progetto ITER. Nell’ambito del prossimo Programma Quadro, Horizon 2020, che si svilupperà nel periodo 2014-2018, le risorse dedicate allo stesso capitolo dovrebbero aumentare leggermente, raggiungendo la cifra di circa 650 Milioni di Euro all’anno, di cui quasi l’80% esplicitamente dedicati al progetto ITER. La cosa interessante da notare e commentare è che le aziende Italiane stanno mostrando grandi capacità di competitività, aggiudicandosi una grande percentuale delle gare internazionali per la fornitura di componenti di ITER, riuscendo quindi a intercettare a oggi circa 600 milioni di Euro provenienti da questi finanziamenti. Nel campo dei magneti superconduttori, che io personalmente conosco meglio, e che pesano per circa un quarto del totale degli investimenti per la costruzione di ITER, a parte le commesse per la fornitura del materiale superconduttore, su cui l’Italia non è al momento attrezzata, le commesse per le manifattura dei conduttori e dei magneti sono state aggiudicate da industrie del nostro paese, che in alcuni casi sono perfino riuscite ad aggiudicarsi commesse e intercettare finanziamenti da parte di altri partner di ITER, come Stati Uniti o Russia.

Rimanendo nello specifico dell’Italia, il programma Italiano sulla fusione nucleare impiega attualmente circa 60 milioni di Euro, in buona parte per programmi o di partecipazione diretta a ITER, o di ricerca e sviluppo a supporto di ITER. A tal proposito l’Italia si è innanzitutto impegnata a contribuire con un budget di 90 Milioni di Euro alle attività previste dal Broader Approach, un accordo di cooperazione internazionale tra Unione Europea e Giappone con lo scopo di integrare il progetto ITER attraverso attività di Ricerca e Sviluppo relative a tecnologie avanzate per i futuri reattori dimostrativi. In aggiunta, l’Italia è attualmente impegnata nel proporre in sede di Commissione Europea il progetto FAST (Fusion Advanced Studies Torus), una macchina di tipo Tokamak satellite di ITER, per lo studio di regimi avanzati della fisica del plasma, e per la verifica di soluzioni tecnologiche per ITER e per il futuro reattore dimostrativo, DEMO. Il finanziamento per tale impresa ammonterebbe a circa 320 Milioni di Euro, distribuiti su 6 o 7 anni. La realizzazione di FAST è però subordinata alla sua approvazione in sede Europea, che limiterebbe a circa il 40% del totale l’ammontare del finanziamento Italiano.

La fusione nucleare è considerata un metodo “pulito” di produzione di energia dato il basso numero di scorie prodotte. È davvero così? Che rischi ci sono per l’ambiente?

La fusione nucleare rappresenta effettivamente un metodo di produzione di energia pulito e rispettoso dell’ambiente. Innanzitutto la reazione non produce alcuna sostanza inquinante o gas serra, né produce scorie radioattive, come nel caso di un reattore commerciale a fissione. A fine ciclo vita di una centrale, soltanto le sue strutture risulterebbero attivate a causa del bombardamento neutronico subito, ma si tratta di una radioattività con tempi di decadimento dell’ordine delle decine di anni, quindi facilmente gestibili e di gran lunga inferiori alle centinaia di migliaia di anni tipiche delle scorie nei reattori a fissione. Per quanto riguarda il combustibile, i candidati migliori per la reazione da sfruttare commercialmente sono il deuterio e il trizio, entrambi isotopi dell’idrogeno. Il deuterio si può estrarre dall’acqua (1 Litro di acqua marina ne contiene circa 33 mg), ed è dunque sostanzialmente inesauribile e presente in maniera molto diffusa sulla terra, con ovvi vantaggi dal punto di vista geopolitico; il trizio non esiste invece in natura, ma si può ricavare dal litio, estremamente abbondante sulla crosta terrestre, e sarebbe inoltre prodotto a ciclo chiuso all’interno di un reattore a fusione. Volendo introdurre qualche numero di confronto, una centrale a fusione da 1000 Megawatt consumerebbe ogni anno circa 100 kg di deuterio e circa 3 tonnellate di litio, mentre un’analoga centrale a carbone avrebbe bisogno di più di 2.5 milioni di tonnellate di combustibile.

Certo, il modello di approvvigionamento energetico che si propone con le centrali a fusione nucleare rimane quello di una generazione concentrata, per mezzo di grandi centrali, piuttosto che quello di una generazione distribuita, favorevole nel caso di altre fonti rinnovabili. Ma questa è una questione diversa, che meriterebbe una discussione estesa e probabilmente esula da quanto discusso qui.

Oltre al problema scorie, il nucleare tradizionale ha dimostrato di non avere superato nel tempo il rischio “incidente”. Si dice che il “nucleare a fusione” sia intrinsecamente più sicuro, può confermarlo e spiegarci perché?

Un reattore a fusione nucleare è intrinsecamente sicuro perché la reazione di fusione non è in grado di auto-sostenersi e si spegnerebbe in pochi secondi nel caso del più lieve malfunzionamento della macchina. Affinché tale reazione avvenga, infatti, è necessario creare all’interno del reattore le condizioni presenti all’interno del sole e delle stelle, riscaldando il plasma a una temperatura di circa 150 milioni di gradi, in modo da superare la repulsione tra i nuclei dovuta alle interazioni elettromagnetiche, introducendo una potenza addizionale notevole, dell’ordine delle centinaia di Megawatt, e controllando con precisione il funzionamento degli elevati campi magnetici necessari per mantenere il plasma confinato, e con la giusta forma. Dunque il pericolo di reazioni a catena o fuori controllo non sussiste. Così come non sussistono i pericoli legati all’approvvigionamento, maneggiamento e stoccaggio di combustibile potenzialmente pericoloso, se non per le piccole quantità di trizio, isotopo dell’idrogeno a bassa radioattività, necessarie inizialmente per la reazione.

Secondo lei quando si potrà assistere all’utilizzo della fusione nucleare per la produzione di energia? Quali vantaggi ne potrebbero derivare?

Al momento le aspettative sugli sviluppi del nucleare da fusione sono tutte concentrate su ITER, che dovrebbe entrare in operazione nel 2019 e dovrebbe permettere una campagna sperimentale di circa 20 anni. Il successo di ITER è certamente condizione necessaria, ma purtroppo non sufficiente perché si possa poi disporre commercialmente di energia prodotta da fusione nucleare. Le caratteristiche che dovrà avere un ipotetico reattore commerciale affinché l’energia da fusione sia anche economicamente competitiva richiederanno un ulteriore salto rispetto a ITER, in termini di regimi operativi, dimensioni e potenze in gioco. Questo per dire che anche rispetto a ITER un reattore commerciale richiederà ulteriori sviluppi di alcune tecnologie, al momento non disponibili o troppo vicine ai limiti di prestazioni, come ad esempio i grandi magneti superconduttori, a cui si richiederebbero maggiori dimensioni e intensità di campo, oppure i materiali affacciati al plasma, che dovrebbero resistere a livelli di irraggiamento neutronico finora mai sperimentati. Queste considerazioni giustificano in pieno gli sforzi che si stanno già intraprendendo per affrontare il più presto possibile queste sfide tecnologiche. Le principali tappe saranno rappresentate dalla costruzione di un reattore dimostrativo, DEMO, un vero e proprio prototipo di impianto sulla scala reale di un’ipotetica centrale elettrica, nel quale si dovranno verificare tutte le tecnologie necessarie, e dalla costruzione della facility IFMIF (International Fusion Materials Irradiation Facility), per il test dei materiali sottoposti a un irraggiamento neutronico di energia, intensità, e volumi irradiati rilevanti rispetto a ciò che accade all’interno di un reattore. Mettendo insieme tutti questi passi, la “fast track” prevede che si dovrà attendere la seconda metà di questo secolo per avere la disponibilità di energia da fusione nucleare su larga scala.

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